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Blooming Iris

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Quattro chiacchiere con Nicolò, Daniele, Guglielmo e Andrea, che ci hanno parlato di "Amondawa", il loro primo album uscito da poche settimane. Ne abbiamo approfittato anche per allargare il discorso al loro percorso e non solo...

I Blooming Iris sono un'interessantissima rock band romana nata nell'autunno del 2010. Due anni più tardi, nel 2012, Nicolò Capozza (voce), Daniele Razzicchia (chitarra, synth), Guglielmo Sacco (basso) e Andrea Orsini (chitarra) pubblicano la loro prima creatura, "Field", un ep di 5 bei pezzi rock che permettono loro di farsi notare all'interno della scena underground della capitale. Cavalcando l'onda del successo ottenuto da "Field" per i ragazzi comincia una lunga serie di esibizioni dal vivo e si schiudono le porte di importanti club romani e Festival importanti, avendo la possibilità di dividere il palco con artisti importanti come M+A, Sadside Project, About Wayne e gli inglesi Amusement Parks On Fire.
Da qualche settimana è disponibile il loro primo album "Amondawa", anticipato nelle radio dal 24 giugno dal singolo "Woodlack". Un disco molto importante per il gruppo, che segna una vera e propria svolta importante nel sound del gruppo: i Blooming Iris si aprono all'elettronica e contaminano il loro rock con elementi provenienti da altri generi quali il folk. Il risultato è un disco maturo e originale, dalle atmosfere a tratti intime e sofisticate, e a tratti più decise e trascinanti.
Abbiamo chiesto a Nicolò, Daniele, Guglielmo e Andrea di parlarci un po' del loro disco, del percorso che li ha condotto fino ad "Amondawa" e del loro modo di vedere la musica e non solo.   [B!]

 

Ciao ragazzi, benvenuti su andergraund! Per cominciare raccontateci come sono nati i Blooming Iris. Quando vi siete conosciuti e quando è maturata la decisione di far musica insieme?

Abbiamo iniziato a suonare insieme al Liceo. L’amicizia è una delle cose più importanti per noi ed è il punto fermo di questo progetto, che nasce più o meno due anni fa precisamente col nome Blooming Iris e con i nuovi pezzi.

So che alcuni di voi provenivano da esperienze precedenti in altre band. Quando uno arriva in un gruppo porta con sé anche il suo percorso, le sue conoscenze e tutta una serie di pregressi artistici e personali e li mette al servizio degli altri. Quanto è stato importante per voi questo?

Tutti quanti abbiamo avuto dei gruppi prima di questo, addirittura Alberto (batteria) suona attualmente anche con i Libra, altra band romana che vi consigliamo.
Dal punto di vista della resa live le diverse esperienze ed estrazioni musicali sono proprio l’elemento che ti porta a dare forma alla tua individualità come gruppo e come suono e poi ogni cosa porta un po’ di saggezza in più, sia sul palco che in studio, nel bene e nel male.

Buttiamoci a capofitto in "Amondawa", il vostro primo album uscito da qualche settimana. In realtà non si tratta del vostro primissimo lavoro perché un paio d'anni fa avete pubblicato un ep intitolato "Field". Cosa rappresenta per voi quest’album? É un grosso traguardo ma al contempo anche un punto di partenza immagino…

È prima di tutto un punto di partenza, proprio perché non siamo mai stati abituati a soffermarci troppo su quello che abbiamo fatto senza avere il bisogno di muoverci (e far muovere), però senza dubbio Amondawa rappresenta per noi il passaggio dall’adolescenza alle cose fatte seriamente.
Tra l’altro siamo fisicamente legati a molti dei pezzi contenuti nel disco, scrivere un album è quasi come creare una piccola nuova temporanea famiglia.

Musicalmente parlando, ma non solo, anche come approccio al lavoro per esempio, quali sono le principali differenze tra "Amondawa" e "Field"? Il sound sicuramente si è evoluto tantissimo.

La differenza sostanziale è che prima di scrivere abbiamo pensato a dove volevamo andare, a quali suoni ci appartenevano e a cosa volevamo trasmettere.
A livello di testi l’ispirazione stavolta è venuta dal mondo esterno e non da quello visto internamente da Nicolò (cantante e autore dei testi). Noi pensiamo molto ai mood che vogliamo comunicare con le canzoni e in quest’album emergono credo tutti gli stati d’animo in cui ci siamo trovati in quell’anno di composizione.

Quello che colpisce maggiormente della vostra evoluzione è sicuramente l'introduzione dell'elettronica che è stata una grande svolta per voi. Quando avete iniziato a sentire l'esigenza di ricercare e sperimentare nuove sonorità? Da chi di voi sono arrivati gli input maggiori? E i vostri punti di riferimento in tutto questo sono cambiati o si sono arricchiti? C'è qualche gruppo o qualche artista che per voi è fondamentale e a cui, come band, vi sentite di dovere qualcosa?

Per prima rispondiamo all’ultima domanda: abbiamo cambiato ascolti dopo Field e nelle cuffie sono entrati artisti come James Blake, Bon Iver, Alt-j, the XX, St. Vincent, Gesaffelstein (continueremmo per ore). Ovviamente pensiamo si sia arricchita la nostra visione musicale ma anche solo in termini quantitativi, però sicuramente l’innesto dell’elettronica (nato principalmente grazie a Daniele) è stato un passo fondamentale, forse proprio perché sentivamo l’esigenza di staccarci dalla strumentistica standard per non avere catene di alcun tipo. Ciò non toglie che Seasick Steve sia un gran musicista, con una chitarra a tre corde e la voce rauca.

Il vostro pubblico, e anche gli "addetti ai lavori", come hanno reagito a questo nuovo sound? Avete già registrato dei primi feedback? Siete soddisfatti di come stanno andando le cose?

Ti rispondiamo onestamente: proprio ieri sera ci siamo detti che abbiamo una sensazione positiva da questo momento, sentiamo che sta per sbocciare qualcosa.
Le persone sono entusiaste, soprattutto dal live, anche se ovviamente commenti più critici (e quindi maggiormente apprezzati) sono arrivati. Le persone sotto al palco ballano e si perdono e questa è una risposta più che sufficiente.
In ogni caso poi ci sono state gran belle recensioni, ultima quella di Ondarock, di qualche giorno fa.

“Amondawa” prende il nome da un piccolissimo gruppo etnico del Brasile. Raccontateci cosa c'entra con voi e col vostro disco?

Mentre scrivevamo sentivamo sempre il bisogno di dover evadere la realtà, poiché gli impegni, gli orari, rendevano sempre più difficile fare ciò che amiamo per davvero: musica. Ci siamo dovuti ritagliare momenti, spazi, anche di notte, tardi. Quando siamo venuti a conoscenza degli Amondawa, una tribù che vive senza conoscere il concetto di tempo, abbiamo subito deciso che quello sarebbe stato il titolo dell’album. Tra le altre cose, a distanza di tempo ci siamo resi conto che quasi tutti i testi parlano di cose o persone che non fanno più parte della nostra vita, o che non abbiamo mai avuto. In questa mancanza, ci siamo sentiti simili agli Amondawa.

Entriamo un po' più nello specifico dei pezzi. Innanzitutto raccontateci come nascono le vostre canzoni. Testo, musica, arrangiamenti... E per scrivere i testi generalmente da cosa prendete spunto. Da situazioni vissute in prima persona, dall'osservazione di ciò che vi circonda, da entrambe le cose?

Le nostre canzoni sono nate tutte da idee o pezzi che Daniele ha passato a Nicolò. Successivamente gran parte parte del lavoro, per questo album, è stato fatto in studio insieme a Music J Studio. Riteniamo sia fondamentale lavorare con qualcuno di cui ti fidi e con cui puoi condividere serenamente le tue idee. In questo caso Music J Studio e nello specifico Iacopo sono stati decisivi. Per quanto riguarda i testi sì, abbiamo preso spunto de entrambe le cose.

Alcuni pezzi parlano di amore e di affetti, sentimento analizzato da diverse angolazioni. Penso ad esempio ad "Amondawa", a "Woodlack", a "Solipsist", ma anche a "NIM", che parla di un tipo diverso di rapporto, quello con la propria famiglia. Dai vostri pezzi che visione viene fuori dell'amore, che è il sentimento che muove le nostre vite e le nostre azioni.

Bella domanda. È la prima volta che parliamo di amore nei nostri brani e per farlo abbiamo pensato di esprimere alcune sfumature che per noi può assumere questo sentimento. Per noi l’amore permea tutte le cose che fai, e quindi è la cosa più importante, onnipresente come un Dio. È una cosa talmente grossa che un pezzo solo che ne parlasse non bastava.

"Spleen" e "Raw" sono due brani molto belli e anche molto intimi, e trattano tematiche molto personali. "Spleen" in particolare è un pezzo molto forte, e parla di un momento di crisi esistenziale affrontato e per fortuna superato. Quanto è difficile e quanto di contro è terapeutico mettersi a nudo e convogliare in una canzone le proprie fragilità, i propri dubbi e le proprie paure?

In realtà Nicolò non ha mai avuto problemi a mettersi a nudo. Più che una terapia è una promessa. Pensiamo sia poco onesto cantare di cose che restano solo parole e cadono nel vuoto nella vita di tutti i giorni, questo ci motiva a far si che la nostra musica rifletta anche la nostra personalità.

"Same Old Blood" è un pezzo molto interessante e molto particolare sia per il tema che tratta sia per la sua genesi, che da quel che so è stata un po' particolare. Ce ne volete parlare?

Per noi è un pezzo importante. È nato dall’unione di due brani che Nico e Dani avevano scritto separatamente. Quando abbiamo ascoltato per la prima volta il risultato finale siamo rimasti davvero contenti, contenti che per una volta la casualità ci avesse aiutato un po’.

Infine vi volevo chiedere di "The Mirror Stage". Qui entrano in ballo Freud, la psicanalisi e la filosofia. Raccontateci di cosa parla il pezzo e come è nato?

Questa canzone è per una persona che non fa più parte della nostra vita (è ancora vivo). La fase dello specchio, questa è la traduzione italiana, è quella in psicanalisi in cui il bambino comincia a prendere atto della sua esistenza guardandosi riflesso.
In realtà i motivi per cui lo paragoniamo a questa "fase" sono personali, ma il testo può essere considerato universale e con una morale positiva.

So che state girando parecchio per suonare dal vivo i pezzi nuovi? Quanto è importante, divertente e gratificante questa parte del lavoro? So che avete calcato anche palchi importanti. Qualche serata che vi è rimasta particolarmente nel cuore?

Girare e suonare pensiamo sia alla base di tutto. Quando suoni, viaggi, incontri persone, impari a gestirti come gruppo e come individuo, capisci molto della tua musica e dei tuoi limiti di resistenza all’alcool. Una serata che ci è rimasta particolarmente nel cuore è l’ultima, al Porcelli Tavern ad Amelia, dove le persone hanno ballato con noi e ci hanno fatto sentire a casa. Ovviamente oltre al Lanificio, in occasione del nostro release, dove abbiamo suonato di fronte a 400 persone.

La stato di salute della musica live in Italia qual è? Altri gruppi con cui abbiamo parlato in passato non ci hanno dipinto un quadro roseo della situazione. Però voi avete sempre suonato parecchio dal vivo, fin da quando esistono i Blooming Iris. Quindi come stanno le cose?

Pensiamo seriamente che il livello di musica dal vivo in Italia sia disarmante. Crediamo che ci sia molta superficialità ed errori di valutazione da parte degli addetti ai lavori a volte. La scena Italiana oltre a non esistere quasi, data l’eccessiva massificazione di generi proposti, è in carenza di ossigeno, e come sappiamo tutti, se non respiri muori. Tuttavia, questo tour, che a noi sta andando bene, ci ha fatto scoprire tante belle realtà nuove e stimolanti, e ci batteremo per farle respirare.

Oltre a suonare tantissimo avete altri programmi? C’è già qualcosa che bolle in pentola? Progetti a breve e lungo termine?

Oltre a voler suonare in tutta Italia e anche in Europa, abbiamo pronto il secondo disco ed il best of, con dei featuring importanti quali Paul McCartney e Zucchero.

Complimenti, che colpaccio! Salutatemi Paul e Adelmo quando li vedete, che sono vecchi amici... Ragazzi, abbiamo finito. Grazie della disponibilità e in bocca al lupo per tutto!

Grazie a voi, crepi!

 

 

 

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Acquista "Amondawa":

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Spotify play.spotify.com/album/5sQomNi6PiCe6zmcZ1ZCdd

 

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